Giuseppe Tecce con il suo romanzo “Storia di un presidente che si credeva un topo”, edito da Scatole Parlanti, racconta l’attualità attraverso una narrazione originale. Il protagonista di questo romanzo è Andrea, un ipocondriaco che appena apprende la notizia del contagio si auto-isola.
Durante l’isolamento nascono in Andrea una serie di idee, come quella di essere una cavia da laboratorio: “Certo che essere un topo potrebbe fare la differenza tra la vita e la morte. Essere in una di quelle gabbie non sarebbe molto diverso che stare rinchiusi in questa prigione, con una differenza notevole in prospettiva: qui sei certo di dover morire, lì la fatidica iniezione del vaccino aprirebbe le porte verso praterie di verde immaginazione. Potrei propormi, quale cavia umana e partecipare al programma sperimentale”.
Ad un certo punto accade l’inaspettato. Andrea si sveglia topo: “Di sicuro non posso farmi vedere in questo stato. Non so nemmeno se possano capire il mio linguaggio. Con grande probabilità il mio parlare sarà udito come uno squittio. E inoltre i topi generano sempre un grande senso di ribrezzo che si trasforma, ben presto, in un atteggiamento omicida. Io stesso ho provato, più volte, queste sensazioni alla vista di un topolino e ho cercato, ingiustamente, di ucciderlo. È nella natura delle cose. Ma io devo tutelare i miei cari e devo tutelare me stesso”.
Ma dopo un momento di smarrimento, l’Andrea-topo capisce che può trarre beneficio da questa situazione: “Dovrei approfittare di questo mio stato per farmi inoculare il vaccino, in modo che, trasformandomi di nuovo in essere umano, possa essere definitivamente immune al virus tanto temuto. Sono un topo, posso diventare un topo da laboratorio”.
Da questo punto, la storia narrata da Tecce prende una piega particolare e si conclude in modo inaspettato. Il lettore amerà questo libro, in cui - in un modo o nell’altro - ritroverà qualche aspetto vissuto o riflessioni fatte durante e dopo il lockdown.