Va bene, il titolo è provocatorio, fatto a bella posta per portare l’attenzione su un tema dei nostri giorni: ci si vuol cioè chiedere se attraverso sempre più numerosi eventi artistici che pubblicizzano in tutto il mondo “spettacoli multimediali”, “ animazioni e immersioni totali”, “riproduzioni 1.1” se con “grandi schermi con proiettori HD” e via di questo passo (digitale) non si porti a compimento quell’incendiario proclama del titolo, scritto all’inizio del ‘900 dal Marinetti nel suo manifesto futurista.
Ed in effetti il dubbio non pare peregrino: ha ancora senso il classico (talvolta polveroso) museo con tele centenarie e statue che perdono progressivamente i colori originari se oggi la tecnologia ci sta consentendo di riprodurre con assoluta fedeltà tutte le opere di Van Gogh e di Caravaggio, di Klimt e di Cezanne, i cui originali magari stanno in luoghi fra loro distantissimi e che mai potrebbero essere riuniti in un unico ambiente?
Guai però se un tema del genere viene affrontato con pregiudizi “politici”, ugualmente perniciosi sia che propugnino la sacralità dell’opera unica, irripetibile e non riproducibile (magari con qualche angoscioso turbamento di fronte a non infrequenti copie coeve all’originale), sia che prescindano ferocemente dalla storia dell’autore e dell’opera, felicemente ubriacati dal galleggiare fra un centinaio di proiettori che fanno rimbalzare in ogni dove il campo di frumento con cipressi di Van Gogh, magari animando gli alberi con una musichetta rilassante.
Un approfondimento – che vorrebbe essere serio- della questione può avvenire attraverso due piani di lettura: uno odierno ed uno comunque attuale, anche se scritto a partire da un secolo fa (proprio come il grido screanzato del Marinetti). Seguiamo allora la cronologia del tempo per dire intanto che il tema si pose quasi in contemporanea con l’industrializzazione delle riproduzioni fotografiche, se Walter Benjamin (problematico e sensibilissimo filosofo tedesco che negli anni 40 preferì il suicidio al rischio di restare intrappolato in un’Europa oramai nazista), scrisse proprio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Pagine anch’esse problematiche (il testo è presente in cinque versioni, tutte incomplete) che vedono nella tecnologia dell’immagine riprodotta “...la possibilità di emancipare l’arte rispetto all’ambito del rituale”, in modo che “al valore culturale si sostituisca il valore espositivo”: ecco quindi che in una sorta di democratizzazione dell’opera si possa e si debba superare il tema quasi sacrale della sua unicità “mediante la ricezione della sua riproduzione”.
Sono i tempi moderni e i nuovi strumenti che portano a questa realtà inedita, a quei “cambiamenti molto profondi dell’antica industria del Bello”, come -sulla stessa linea di Benjamin- ebbe a scrivere l’altezzoso poeta francese Paul Valery prima e André Malraux poi, altro grand homme che riposa al Pantheon delle glorie di Francia, per il quale proprio “la riproduzione fotografica ha consentito a decine di milioni di persone di conoscere ed apprezzare i capolavori”. Il dado è stato quindi tratto ed anche al di qua dalle Alpi il valore comunicativo dell’opera d’arte riprodotta è stato nel tempo fatto proprio, fra gli altri, da Salvatore Settis, Denis Mahon (italiano “naturalizzato”), Claudio Strinati e Maurizio Calvesi.
Ovviamente è difficile (anzi, impossibile) confrontare le emozioni che trasmette la fisicità di una tela, ancorché vista da lontano e nella penombra di una cappella , con la immediata e luminosa “lettura” di una sua riproduzione in alta definizione, ma non è da sottovalutare una semplice considerazione quantitativa: la ri-scoperta nel 900 del Caravaggio avvenne nella celeberrima mostra del Longhi a Milano nel 1951: si ammirarono – e fu la rivoluzione- circa 30 opere e 25 furono quelle esposte alle scuderie del Quirinale per il 400esimo anniversario della morte; la mostra immersiva ci fa entrare in contatto con i dipinti e si tratta, per di più, di evento replicabile senza vincoli di tempo o di luogo.
Adelante con judicio, quindi ma togliamo ogni paura o prudenza eccessiva, in grado di far arrugginire ed incrostare così delicati meccanismi; non dimentichiamo mai la verità indicata dal filosofo tedesco Hans- Georg Gadamer: “la cultura è l’unico bene dell’umanità che, diviso fra tutti, anziché diminuire diventa più grande”.