Quelle morti violente che colpiscono i proprietari di Palazzo Dario, a Venezia, vengono spesso maliziosamente attribuite alla fantasiosa maledizione che grava su questo splendido edificio cinquecentesco tuttavia, questi decessi, non avvengono mai al suo interno, fatto salvo il caso del conte Filippo Giordano delle Lanze.
Nel 1970, questo assassinio brutale contribuì ad accrescere notevolmente la fama nefasta che già gravava su Ca’ Dario e a rinvigorire una sorta di irrazionale timore che suggestionava le persone predisposte a credere, soprattutto chi ci abitava vicino. Io, ad esempio, ero tra questi!
Dalla nascita fino ai vent’anni ho abitato al civico n. 212 del Sestiere di Dorsoduro. A qualche centinaio di metri dalla splendida basilica di santa Maria della Salute (di Baldassarre, Longhena, 1596 ?-1682) e a meno di cento metri dal malfamato palazzo, che rimane al civico n. 352. Per andare a scuola o semplicemente per recarmi agevolmente in qualsiasi punto della città, dovevo transitarci davanti e, in quei brevi momenti del tragitto, a volte il mio pensiero non era scevro da un lieve senso di inquietudine.
Ieri come oggi, per entrare nel palazzo, si deve superare un bellissimo cancello di legno massiccio, che allora non chiudeva bene (tutt’ora esistente), impreziosito da 240 piccoli fori sagomati a rosellina, con una croce metallica all’interno, per poi proseguire lungo una stretta calle privata un po’ lugubre, silenziosa, dagli intonaci fatiscenti e macchiati, che sfocia nel Canal Grande.
Va tenuto presente che, per un palazzo veneziano, qualsiasi accesso dalla strada, per quanto spettacolare, è secondario rispetto all’entrata padronale, che si trova sempre sull’acqua!
Ebbene, noi ragazzini della zona, per provare il coraggio individuale nei bui e nebbiosi pomeriggi d’inverno, dovevamo percorrere lentamente, da soli, proprio quei 20 metri di calle fino al Canal Grande e ritornare indietro, senza correre o fiatare. Il resto del gruppo vigilava di fronte, a buona distanza, nel Campiello Barbaro, dal quale si poteva monitorare questo pseudo rito di passaggio. Da lì, emettevamo lugubri suoni ed ululati che certo non aiutavano l’apprendista virile.
Tra l’altro, era convinzione popolare, ben assimilata da noi piccoli “arditi” che, oltre al maleficio, quel palazzo fosse infestato da fantasmi. I presunti testimoni del posto li vedevano aleggiare vicino alle finestre nelle notti di luna piena.
Ora, mentre scrivo sto sorridendo scuotendo la testa, ma allora eravamo davvero impauriti dai racconti raccapriccianti che ci mulinavano nelle testoline.
Poi successe il fattaccio che confermò i nostri mal celati timori sulla maledizione e che ci impaurì ulteriormente!
Nel luglio del 1970 il conte Filippo Giordano Delle Lanze, un ricco antiquario torinese quarantaseienne, che solo da due anni aveva acquistato Ca’ Dario, venne trovato ucciso in una pozza di sangue con la testa fracassata nella sua camera da letto. Con una mano stringeva un prezioso quadro del pittore veneziano del XVIII secolo, Pietro Longhi.
Si ritenne che a colpirlo mortalmente con pesante vaso d’argento, fosse stato il suo presunto amante Raoul-Claudio Blasich (cognome della madre) alias Brenner (cognome del padre), un marinaio croato di ventidue anni, che la governante del conte aveva sentito discutere animatamente la sera dell’omicidio.
Venne avviato un lungo e articolato processo non senza forzature procedurali a discapito del marinaio che comunque fu assolto in primo grado di giudizio; ma una criticata sentenza di appello lo condannò a diciotto anni di reclusione che non scontò mai, perché già la sera stessa dell’omicidio del conte, Blasich, sparì per sempre all’estero dove fu brutalmente assassinato.
L’intera vicenda fu mediaticamente eclatante, anche perché la si volle collegare con il sinistro incantesimo incombente sul palazzo ed alle conseguenti morti violente dei proprietari che si avvicendavano da più di cinquecento anni a questa parte.
“Telefono Giallo” di Corrado Augias, dedicò a questo crimine, una avvincente puntata [1] dalla quale emerse la testimonianza telefonica di una donna che, quella sera, venne travolta da due giovanotti che uscivano correndo dall’abitazione del conte.
Seguii il caso con molto interesse e apprensione. Cercai conforto da mio padre il quale non credeva affatto alla maledizione. Eppure, nonostante la sua razionalità e le sue oggettive spiegazioni, la mia mente di bambino non riusciva a trovare un’alternativa che fosse in sintonia con il suo pensiero rassicurante, o forse non voleva perché, quando si è bambini, tutto viene recepito come magico e lo stupore diventava una necessità naturale.
Tuttavia, diciamo per prudenza, noi impavidi ragazzini sospendemmo per sempre i rituali virili!
Due mesi fa, ho visitato la mostra “Surrealismo e magia. La modernità incantata”, alla Peggy Guggenheim Collection, che dista pochi metri da palazzo Dario. Poiché mi reco raramente da quelle parti, ho approfittato per prendermi un po’ di tempo e ammirare, per l’ennesima volta, questa splendida magione dal Campiello e dal ponte Barbaro o dalla calle che costeggia il muro del giardino. Ho rivisto il cancello traforato e spiandoci attraverso, la cupa calle delle fanciullesche prove audaci.
Purtroppo, nella matura realtà, la magia, il fascino e l'agitazione che riempiono ancora i miei ricordi infantili erano svaniti, nonostante si esercitasse su di me l’assonante suggestione del surreale e dell’onirico delle opere che avevo appena visto.
Quello stupore innocente, rievocato anche dal mio inconscio, aveva lasciato spazio alla razionalità … e compresi meglio gli insegnamenti di mio padre!
[1] https://www.youtube.com/watch?v=cduyf5sdx8s